Alessandro Nesta ieri ha spento 43 candeline. Per un laziale non è facile raccontare di lui, soprattutto per quelli che non hanno mai visto, roba anagrafica, il vero numero 13 biancoceleste. Maglia un po’ bistrattata nel tempo a seguire, lo stesso numero lo indossò addirittura Bisevac ed è assai più grave anche di Wallace.

Sono cresciuta col dualismo Totti/Nesta, entrambi giovani, romani e rappresentanti delle due opposte fazioni del Tevere. Simboli di anni passati dove hanno sventolato forse le ultime vere bandiere.

Tutti sanno che Alessandro faceva di mestiere il difensore, un ruolo spesso grezzo, ma in lui si sposava bene il dualismo  “coprire a tutti i costi” e la classe. Il mondo aveva visto finalmente l’eleganza abbinata alla cattiveria agonistica.

Sin dal suo esordio in Serie A, si era capito che quello sbarbatello sarebbe diventato un campione ed i tanti ragazzini che sognavano una 10 sulle spalle, o che avrebbero voluto un giorno chiamarsi “bomber”, improvvisamente volevano fare i “difensori”. Uno di questi? Alessio Romagnoli, cuore laziale.

Riscrisse completamente un ruolo, lo innalzò, diventò capitano di una squadra fortissima nonostante la giovane età. E questo non è da tutti. Romano, laziale e con la fascia al braccio.

Era l’emblema di un calciatore che ai tempi d’oggi tutti vorrebbero: la tecnica e la forza. Ma Nesta è stato soprattutto l’anello di congiunzione tra una Lazio “povera” e l’epoca “faraonica” di Sergio Cragnotti.

Il campione della porta accanto, poco avvezzo alle copertine patinate, poco avvezzo al proclama, insomma, “signorilità” allo stato puro dentro e fuori dal campo.

Nessun avversario avrebbe potuto farti venire il cardiopalma, oggi non esisterebbe nessun Cristiano Ronaldo perché tanto ci sarebbe Nesta e chi c’ha Nesta nun trema. Eh già… sarebbe bello, peccato che dopo di lui buttarono lo stampino e difensori così in giro non se ne vedono. Nemmeno quelli che pensiamo i più forti del mondo, nemmeno Sergio Ramos, perché, se aveva un altro pregio tra mille, quello del numero 13 biancoceleste era sicuramente preferire la giocata allo scontro fisico.

Non furono solo rose e fiori però, come in ogni favola che si rispetti, arrivò il finale. Al contrario delle favole, questo epilogo fu amaro e non comprese il “vissero felici e contenti”.

Qualcuno lo accusò di essere un mercenario come tanti, ma la scelta di abbandonare la Lazio, una scelta sofferta da parte del capitano, fu solamente figlia della necessità di assicurare un futuro alla stessa Lazio. Da apprezzare ancor di più un elegante silenzio, Alessandro infatti volle parlare del tutto solamente a carriera conclusa. Accettò i fischi dell’Olimpico quando tornò con la maglia del Milan, l’avversione di quegli stessi tifosi che lo avevano amato da morire.

L’addio di Nesta fu il più traumatico per una generazione di laziali, chi ora ha 40 o 30 anni, ricorda di aver pianto lacrime vere, lacrime che non sono mai state asciugate del tutto, perché “un Nesta è per sempre”.

È il diamante più bello per quella generazione, la mia.

Difficile spiegare un addio, una sofferenza irreale eppure così presente.

Ma non finì tutto così, perché un capitano non finisce mai. Attaccati gli scarpini al chiodo, adesso Alessandro fa l’allenatore e chissà se un giorno, da Perugia fino alla capitale, i nostri destini torneranno ad incrociarsi.

Questo è il sogno di tutti noi, un lungo abbraccio rimasto sospeso nel tempo.

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